Alcune pagine del Manuale


5. La causa

1. La causa del contratto. - 2. I contratti tipici. - 3. I contratti atipici. - 4. I negozi astratti.

1. La causa del contratto.
Gli altri "requisiti" del contratto, elencati dall'art. 1325, sono la causa, l'oggetto e la forma (quando questa sia prescritta dalla legge sotto pena di nullità).
Il codice civile non dà la "nozione" di causa del contratto né definisce il suo ruolo 'in positivo'; si preoccupa piuttosto di precisare il profilo 'negativo' della illiceità della causa (e dei motivi): artt. 1343-1345. Tale requisito si definisce, pertanto, in base alla tradizione e alla disciplina complessiva della materia.
Per "causa" si intende comunemente la funzione economico-sociale del contratto, e cioè lo scopo, il risultato economico-giuridico cui è diretto un certo schema contrattuale. Ad es., causa della compravendita è lo scambio di una cosa contro un prezzo; causa della locazione è lo scambio tra il godimento di un bene e il corrispettivo di un canone, e così via. Si tratta perciò di un elemento essenziale del contratto: di un elemento, cioè, la cui mancanza (o illiceità) produce come vedremo la nullità assoluta e insanabile del negozio.
La necessaria presenza di una "causa", e di una causa che sia lecita e meritevole di tutela (v. § 30.3), risponde all'esigenza di una giustificazione socialmente apprezzabile del rapporto creato dalle parti e rende evidente come la volontà privata non è da sola sufficiente a creare un rapporto giuridico cui l'ordinamento presti la propria assistenza e tutela. E' necessario, cioè, che la volontà degli interessati sia accompagnata e sostenuta da una sufficiente 'giustificazione': deve essere "diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico" (art. 13222). Sul punto, peraltro, ci siamo già soffermati in precedenza e si tornerà fra breve (§ 33.3); qui è il caso di osservare che il 'controllo' dell'ordinamento sull'autonomia privata opera anzitutto proprio attraverso la valutazione della causa del contratto. Così, non è possibile realizzare un'attribuzione patrimoniale a un soggetto, né assumere un obbligo nei suoi confronti, se non ricorre una 'giustificazione' di tali prestazioni che l'ordinamento consideri adeguata: causa adeguata potrebbe essere ad es. lo 'scambio' con un bene o un servizio, oppure l'intento 'donativo' (la volontà di arricchire la controparte per spirito di "liberalità"). Non si può invece semplicemente trasferire la proprietà di un bene a un altro soggetto, né obbligarsi nei suoi confronti, se non risulta a che 'titolo', 'perché' si voglia realizzare tale attribuzione (sul punto v. anche § 42.5).
La causa, allora, risulta necessaria in quanto definisce il contenuto o nucleo essenziale dell'operazione economica, la tipica funzione economico-sociale che a quel contratto si riconnette nella collettività, consentendo così di valutarne la 'meritevolezza'.

Piuttosto, ferme rimanendo tali esigenze e funzioni del requisito della causa, è il caso di ricordare che una parte della dottrina critica la definizione riportata perché il riferimento alla funzione astratta o tipica non consente di tener conto adeguatamente degli interessi reali che muovono le parti e che poi, in concreto, verranno in considerazione quando si voglia operare il controllo sugli interessi perseguiti col singolo contratto. Tale dottrina definisce piuttosto la causa come la "funzione economico-individuale", come la ragione pratica o interesse concreto perseguito dalle parti. Il problema peraltro è complesso e sarà, sia pure sinteticamente, ripreso nel prosieguo del discorso (§ 46.5). Intanto basterà precisare che la nozione di causa come tipica funzione economico-sociale non esclude che il 'controllo' vada poi condotto sulla specifica causa effettivamente inerente al singolo contratto concluso dalle parti (§ seguente).

2. I contratti tipici.
Ora, con riguardo alle operazioni economiche più consolidate e diffuse nella realtà sociale, la legge ha provveduto a disciplinare, a 'tipizzare' alcuni schemi contrattuali, decidendo così in via generale e preventiva circa la meritevolezza degli interessi perseguiti. Si parla così di contratti "nominati" o "tipici" a proposito di vendita, locazione, mutuo, mandato, trasporto, appalto, etc.: quanti sono i contratti che appartengono ai "tipi aventi una disciplina particolare" nella legge (così, l'art. 13222).
I contratti nominati si presentano dunque come dei modelli astratti o schemi tipici di operazioni economiche che le parti possono tranquillamente adottare. La tipizzazione di tali schemi infatti equivale a una preventiva valutazione circa la tutelabilità degli interessi perseguiti e la meritevolezza della 'causa' del contratto. Si badi, però, che anche in tale ipotesi la causa conserva la sua importanza centrale: la valutazione dell'ordinamento non investe qui lo schema astratto - che è lecito per definizione, trattandosi di 'modello' ammesso dalla legge - bensì la causa concreta relativa allo specifico contratto stipulato dalle parti, verificando che essa in effetti esista e sia valida.
Potrebbe accadere infatti che la causa, astrattamente esistente, non possa in concreto realizzarsi o che essa, pur appartenendo formalmente a un certo 'tipo' legale, sia tuttavia utilizzata dalle parti per raggiungere finalità ulteriori e diverse, non approvate dalla legge. Ciò potrebbe verificarsi, ad es., quando compro una cosa che è già mia o assicuro contro il furto un bene che è stato già rubato. Vendita e assicurazione sono contratti nominati e leciti, ma è chiaro che le operazioni ricordate non hanno alcuna causa concreta, nessuna effettiva giustificazione: ad es., la vendita non potrebbe conseguire l'effetto di farmi acquistare la proprietà di una cosa che è già mia. Manca la causa e il contratto è nullo.
Ma ancora, come s'è detto, potrebbe accadere che le parti utilizzino schemi contrattuali tipici per il perseguimento di interessi diversi rispetto a quelli propri del negozio utilizzato. E' questo il cd. uso indiretto del negozio. Ad es., invece di stipulare una donazione si raggiunge indirettamente un risultato analogo conferendo un mandato ad alienare senza obbligo di rendiconto: il 'mandatario' perciò potrà vendere il bene senza dover rendere conto delle somme incassate (che potrà dunque trattenere per sé). Tale tipo di mandato, in sé, è lecito e, d'altra parte, in linea di principio è consentito alle parti utilizzare gli schemi contrattuali esistenti per scopi pratici particolari e in qualche punto divergenti da quelli tipici. Ad es., la legge consente espressamente che il fine di realizzare un arricchimento gratuito di un altro soggetto - che è lo scopo tipico di una donazione - possa conseguirsi anche tramite altri negozi: le cdd. donazioni indirette (v. § 54.8).
Dunque, in linea di principio, sono consentiti i negozi indiretti (o uso indiretto dei negozi) ove si vogliano raggiungere finalità ulteriori e diverse rispetto a quelle tipiche. L'esperienza segnala casi concreti di uso indiretto del negozio nel matrimonio celebrato al fine di acquisire la nazionalità del coniuge (in particolare, quando il suo acquisto era automatico) e nella vendita a scopo di garanzia (ma sul punto v. § 29.4).
Tuttavia, non va trascurato che talvolta il risultato 'finale' dell'operazione può risultare molto diverso da quello tipico del negozio (così è, ad es., nell'ipotesi della donazione perseguita tramite un mandato senza obbligo di rendiconto): si tratterà allora di verificare se detto risultato non sia per avventura vietato dalla legge e serva perciò, nel caso concreto, a "eludere l'applicazione di una norma imperativa": cfr. art. 1344. In tal caso si ricadrebbe nell'ipotesi del contratto o negozio in frode alla legge: e cioè di un negozio (o più negozi collegati insieme) che rispettando la lettera della legge serve in concreto a violarne i precetti. Nell'esempio fatto, il contratto sarebbe in frode alla legge se servisse ad es. a eludere il divieto posto dall'art. 779 c.c. Altro esempio classico è quello della vendita con patto di riscatto diretta in concreto a eludere il divieto del "patto commissorio" (v. art. 2744 e § 47.5).
Il contratto in frode alla legge è nullo per illiceità della causa (art. 1344).

3. I contratti atipici.
Abbiamo già veduto che all'autonomia delle parti è consentito stipulare contratti "che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare" nella legge, purché siano diretti a "realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico": contratti cd. "atipici" o "innominati" (art. 13222).
Si tratta di una facoltà di cui si fa largo uso nella pratica degli affari, che conosce numerose fattispecie contrattuali non regolate specificamente dalla legge. Si possono ricordare, a mo' d'esempio, i contratti di portierato, leasing, franchising. Spesso anzi si tratta di figure talmente diffuse nella pratica, e inoltre così uniformi nel contenuto, che si parla al riguardo di contratti bensì "innominati" - in quanto non hanno un 'nome' e una disciplina nella legge -, e tuttavia socialmente "tipici" (tanto che non di rado accade poi che la legge interviene a disciplinare tali figure: v. ad es., da ultimo, la legge n. 52/1991, sulla "cessione dei crediti d'impresa", che ha regolato alcuni aspetti del cd. factoring).
Anche in tal caso il controllo dell'ordinamento opera essenzialmente attraverso la valutazione della causa, e perciò della funzione o scopo del negozio: sarà nullo pertanto non solo un accordo diretto a fini illeciti (ad es., pago un pubblico funzionario per ottenerne un favore), ma anche un accordo diretto a fini futili o comunque indifferenti per l'ordinamento giuridico (ad es., pago una persona perché mi garantisca la sua amicizia o il suo affetto). Per essere valido, dunque, il contratto deve essere diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, e tale meritevolezza si valuta sulla base della complessiva disciplina legislativa e dei principi, anche costituzionali, che reggono l'ordinamento giuridico.
La disciplina dei contratti atipici è anzitutto quella dettata per "i contratti in generale" (cfr. art. 1323), quella derivante dagli specifici accordi delle parti (artt. 13221, 1374), quella, infine, desumibile per analogia dalle "disposizioni che regolano casi simili" (art. 12 disp. prel.): e cioè i contratti tipici più vicini allo specifico regolamento d'interessi convenuto tra le parti.
Un problema particolare si pone con riguardo ai cdd. contratti misti, e cioè quei contratti che, pur non rientrando completamente in nessuno dei 'tipi' legali, hanno tuttavia caratteri che li accostano a più di un contratto tipico (e si tratta, in definitiva, della maggior parte dei contratti innominati). Ad es., il contratto di portierato partecipa dei contratti di lavoro subordinato e di locazione, il leasing presenta elementi della locazione e della opzione di vendita (§ 48.5). Ora, in alcuni casi è la legge stessa che indica la sua 'preferenza' per la disciplina di determinati contratti: così avviene, ad es., per i contratti agrari che presentino "elementi, ancorché non prevalenti, dell'affitto agrario": a tali contratti si applicherà esclusivamente la disciplina dell'affitto (legge n. 203/1982). E' questo il cd. criterio della prevalenza o assorbimento: criterio che la giurisprudenza applica ai casi in cui, in un contratto atipico, appaiano prevalenti gli elementi di un certo tipo contrattuale. Negli altri casi, mancando tale estremo della prevalenza, si ritiene applicabile per lo più il criterio della combinazione: a ciascuna clausola del contratto si applicano le regole del tipo contrattuale al quale maggiormente si avvicina.

4. I negozi astratti.
Rimane dunque fondamentale il principio per cui nel contratto si richiede una causa, una giustificazione socialmente apprezzabile. E tale 'limite' all'autonomia privata vale ovviamente anche per gli atti unilaterali: rispetto ad essi, anzi, s'è veduto come la loro necessaria tipicità escluda la possibilità di porre in essere figure diverse da quelle ammesse e disciplinate dalla legge (§ 30.4). I negozi dunque, unilaterali o bilaterali che siano, devono avere una causa lecita.
Va precisato anzi che non soltanto una causa deve esserci, ma altresì, quando si tratti di negozio formale (che richiede cioè una certa "forma": ad es., l'atto pubblico), detta causa deve emergere dall'atto, deve poter essere rilevata dall'atto stesso (e perciò, ad es., si deve precisare se il trasferimento della proprietà avviene a titolo di vendita o di donazione). Non è possibile, perciò, realizzare gli effetti voluti (nell'esempio: l'attribuzione della proprietà) prescindendo dalla causa, e cioè - come anche si dice - facendo astrazione dalla causa. In particolare, non è ammesso nel nostro ordinamento - come avviene invece nel sistema tedesco - un negozio astratto di trasferimento della proprietà.
E' ammesso tuttavia, nel nostro ordinamento, un caso particolare di negozio astratto, e cioè di negozio che produce i propri effetti a prescindere dalla causa: è il caso della cambiale. Se, in corrispettivo della merce che mi è stata promessa, rilascio al venditore delle cambiali e queste sono 'girate' a un terzo, non potrò esimermi dal pagamento adducendo che la merce non mi è stata consegnata ovvero che il contratto di vendita è stato risolto o dichiarato nullo. Non posso, cioè, invocare il venir meno o la mancanza originaria della causa (della compravendita) che aveva dato origine al mio impegno: dovrò pagare e poi rivolgermi al venditore per ottenere la restituzione delle somme. Nei confronti del terzo 'giratario', perciò, la cambiale opera come negozio astratto, come titolo idoneo a pretendere una prestazione che astrae, che prescinde dalla causa (che ha dato luogo al negozio) sottostante. La legge consente tale deroga al principio della causalità degli atti negoziali al fine di garantire sicurezza e rapidità nella circolazione dei crediti (incorporati in un 'titolo' quale la cambiale; sul punto, v. §§ 55.3, 18).
Quella di cui abbiamo parlato è l'astrazione sostanziale, intesa quale autonomia del negozio dal requisito della causa (e perciò quale irrilevanza della causa per la validità dell'atto).
Accanto ad essa va segnalato il diverso fenomeno della astrazione processuale dalla causa, quale autonomia della pretesa dall'onere di provare la causa del negozio. Essa, in buona sostanza, consiste nell'inversione dell'onere della prova: ordinariamente, chi agisce per l'adempimento di una obbligazione è tenuto a dimostrare il titolo da cui essa deriva, e perciò una (valida) causa del contratto che ne è fonte. In alcuni casi particolari, invece, la legge esclude tale onere e perciò chi agisce non è tenuto a dimostrare l'esistenza di una causa (valida) a fondamento dell'obbligazione: tali casi, precisamente, sono quelli della "promessa di pagamento" e della "ricognizione di debito". Qui, dunque, la causa si presume fino a prova contraria e sarà il debitore, se vuole evitare di pagare, che dovrà dimostrare che la causa non esiste, ovvero è illecita, etc. (ad es., potrà dimostrare di aver promesso per pagare un debito di gioco, in adempimento di un contratto poi risolto o annullato, e così via).
Il fenomeno perciò è diverso dalla astrazione sostanziale: in questa non posso paralizzare la pretesa altrui eccependo la mancanza di causa del negozio sottostante (ad es., la nullità della compravendita che ha dato luogo all'emissione della cambiale); l'astrazione processuale invece mi consente tali eccezioni, ma mi addossa l'onere di provarle. Sulla "promessa di pagamento" e sulla "ricognizione di debito" si tornerà comunque a proposito delle obbligazioni nascenti da atto unilaterale (v. § 40.2).